Story of Jen su Marieclaire Italia

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  1. °Camilla°
     
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    un articolo sul film di laurence e 2 foto:

    Story of Jen

    Intervista al regista (e non-fotografo) François Rotger.




    Il mio primo incontro con François Rotger è stato nello showroom di Anne Valérie Hash. È lì che è nata l’idea dell’intervista e la proposta da parte sua di mostrarmi in anteprima Story of Jen, il suo secondo lungometraggio dopo il successo di The Passenger.

    Lavori sia come fotografo di moda che come regista, cosa preferisci?
    Io non mi considero affatto un fotografo, almeno non nel senso attuale del termine. Quando si fotografa si cerca o si crea un instante, una serie di immagini che non fanno altro che tendere verso quell’unica immagine che alla fine verrà mostrata. Adesso invece la maggior parte dei fotografi sono dei semplici esecutori, hanno perso il potere dell’attesa, la capacità di provare e di sbagliare, affidandosi completamente alla sicurezza della tecnica. Io fotografo per le persone che amano il loro lavoro e la fotografia, non solo come arte, ma anche come pratica. È a queste condizioni che faccio foto e giro film e sinceramente il problema di quale sia quello che preferisco nemmeno mi pongo.

    Come è nato Story of Jen?
    Tutto è iniziato da un progetto che avevamo in cantiere io e la mia amica Jen: scrivere una di quelle storie incredibili che hanno segnato la sua infanzia nel sud est degli Stati Uniti. Ci scambiavamo delle mail e poi una sera mi arriva un suo messaggio che dice “mi dispiace ma è troppo dura per me, non me la sento di andare avanti”. Allora ho riletto i messaggi passati e quell’esperienza che aveva vissuto a 14 anni era lì davanti ai miei occhi nella sua prima mail. È lì che ho iniziato a scrivere la sceneggiatura.

    Qual è la differenza principale con il tuo primo film?
    La narrazione è più lineare. In The Passenger ci si trovava costantemente in una sorta di limbo, alla deriva tra il Giappone e un Canada irriconoscibile, c’era una volontà di far perdere e lasciarsi perdere. Story of Jen è più semplice, è il racconto di una persona che è ancora viva, non troppo lontano da qui, e che non ha dimenticato. È un percorso in linea retta.

    La perdita del padre e il conseguente rapporto con la madre in relazione a questo sono punti focali della storia.
    La figura del padre assente ritorna per la seconda volta. In The Passenger il padre di Kohji era sparito senza lasciare tracce, quello di Jen si dilegua ancor prima che la storia inizi. La madre di Jen era così giovane che avrebbe potuto essere sua sorella e alla morte del marito non le resta che il suo ruolo di madre, che non riesce ad accettare. Non so perché il concetto dell’assenza del padre sia così ricorrente della mia cinematografia. Diciamo che a parte il significato della fuga in quanto tale c’è sicuramente qualcos’altro che mi attira ma non voglio pensarci troppo, preferisco evitare l’argomento.

    Perché hai scelto Marina Hands per interpretare la madre?
    Avevamo fatto delle foto insieme e ci eravamo trovati bene, poi l’avevo vista in Lady Chatterley e mi ha conquistato. È veramente incredibile: riesce a concentrarsi profondamente per una scena intensa anche se tre minuti prima stava ridendo a crepapelle per una barzelletta.

    E per il ruolo maschile cercavi qualcuno in particolare?
    Tony (Ward) è talmente dentro al personaggio che a volte mi sembra di aver scritto la sceneggiatura pensando a lui. E penso di aver utilizzato solo una minima parte delle sue potenzialità.






    http://www.marieclaire.it/moda/stile/story-of-jen
     
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  2. {ChloeIsobel}
     
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    grazie delle info
     
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1 replies since 24/6/2009, 10:26   103 views
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